Un fratello mi aveva condotto in quel luogo e mi aveva stretto quella benda che ora soffocava ogni mio senso. Non sapevo esattamente perché mi trovavo lì, immerso in viscere che non erano di nuda terra ma di solitudine e paura. Ma, anche se la mia mente non riusciva più a sentire e a ricordare, sapevo che un compagno mi aveva guidato in questo viaggio così difficile e tanto singolare. Mi accorsi che la strada che ero stato obbligato ad intraprendere, mio malgrado, era eccitante e meravigliosa anche se mi avesse dovuto condurre in quel buio privo di ricordi e sogni, di ieri e domani. Avevo scoperto che non potevo chiedere al futuro di dare un senso alla vita ma semmai all’ora, all’adesso o forse, ancor di più, al passato. Quanto era più bello ogni attimo della vita se per quanto breve o fugace che fosse riuscivo a proteggerlo, curarlo e accudirlo nell’angolo più nascosto della mia memoria. Il silenzio, il rumore, la voce di un uomo, il cielo, un piccolo filo d’erba, l’ultimo raggio di sole, tutto mi ricordavo quel giorno fatto notte. Perfettamente, lucidamente ripercorrevo ogni sentiero, ogni più piccola immagine ritornava viva e splendente quando chiusi gli occhi senza sapere se ci sarebbe stato un dopo ma felice per tutto quello che era stato.
Quando gli riaprii mi trovai in una stanza buia. Vi ero stato condotto bendato e non sapevo quanto ci sarei rimasto. Forse per sempre. Li dentro nessuna clessidra scandiva il tempo. Il giorno era uguale alla notte in un ciclo infinito di cui non percepivo un inizio e nemmeno una fine. Alle pareti mostri, incubi ma soprattutto il tempo, sempre uguale a se stesso, mi terrorizzava. Avevo perso i miei ricordi anzi la mia mente era completamente assimilata dall’istante, senza più un senso del passato e con un futuro sempre uguale a se stesso perché ciclicamente identico all’attimo appena trascorso. Se la morte è l’assenza io lo era già perché, senza ricordi, non ero nulla.
Riuscii dalle tenebre un giorno dei primi di giugno di nove anni fa. Finalmente qualcuno aveva tolto la benda che ricopriva il mio volto e che mi aveva reso cieco per quasi ventidue giorni. Quel fratello, quel compagno di viaggio che mi aveva condotto fin lì, preferisco chiamarlo come gli antichi greci perché, la loro πάθηση, a differenza della nostra malattia, rende più giustizia a quel senso di debolezza sì, ma anche di emozione e pathos. Del resto chi non viene sopraffatto da un enorme impressione davanti alla straordinarietà della vita? Era stato un viaggio lungo ma affasciante in cui, anche se per poco tempo, avevo intravisto, forse, l’essenza delle cose. L’avevo assaporata, vista ma mai posseduta del tutto. Per questo ricordo con affetto quel fratello che mi aveva destato dal mio torpore durato i 35 anni della mia prima vita.
Pensai a tutto questo quando titubante percorsi i primi passi bendato verso il Gabinetto di Riflessione riconoscendo in quel viaggio, l’altro viaggio che avevo già percorso tanti anni prima. Nel procedere incerto e impaurito tra quei corridoi senza poter far affidamento sulla mia vista, rintracciavo la debolezza e la paura che il corpo malato aveva regalato alla mia mente in quell’altro viaggio. Nell’oscurità e angustezza di quel piccolo gabinetto ritrovavo quello in cui avevo vissuto per ventidue giorni nella mia vita precedente. Era un viaggio di cui riconoscevo i suoni, le sensazioni ma non la destinazione. Tutto mi fu chiaro quando mi fu tolta la benda. Per un attimo, solo per un istante, riassaporai la stessa sensazione di liberazione, di vita e di gioia che avevo provato quel giorno di giugno quando ero, stentatamente uscito dal coma. Ma questa volta, in questa terza rinascita, ad aspettarmi c’era una luce nuova, di speranza e pace interiore.
O∴M∴R∴